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NAPOLI. Che dire di Viviani e della sua mimica asimmetrica? Del suo corpo di scugnizzo in sussulto e della sua voce nostalgica? Delle sue nitide enunciazioni e delle sue pause sapienti? Della sua pacatezza e dei suoi scatti, della sua inesausta vena moresca e della sua dolente umanità? Domande queste, che poste al di là del tempo, dal grande critico e teorico teatrale italiano Silvio D'Amico, provano a trovare una risposta nel lavoro del regista Antonio Ferrante, artefice del ritorno in scena di "Io Raffaele Viviani". Riportando al Teatro Totò il "mitico" spettacolo del 1970 scritto a quattro mani da Antonio Ghirelli ed Achille Millo, Ferrante, facendo leva su di un attore da sempre avvezzo ai sentieri vivianei come Gigi Savoia e poi, sulla temerarietà di Giuseppe Zeno insieme all'intimismo di Lalla Esposito ed alla "altisonante" voce di Francesco Viglietti, riconduce in palcoscenico le facce di chi cerca di sfuggire al predestinato ruolo di emarginato.
COMICO E TRAGICO. Un senso del reale quello di Viviani visto da Ferrante che evita di elaborare una separazione netta tra il comico e il tragico dei suoi personaggi e delle situazioni in cui evolve, naturalmente, lo spettacolo. Ecco allora che ad emergere sono ancora una volta tutti quei toni dimessi e sfumati del dramma popolare e tutti quegli elementi cari al grande "scugnizzo" tra cui, il riscatto dei diseredati. Provando a ritrovare, attraverso i volti e le voci dei vari personaggi, l'essenza più interiore di un canto tanto liberatorio quanto struggente e provando a rendere vere delle presenze umane, altrimenti, unicamente legate alla finzione scenica, Ferrante, accosta i suoi attori a colui che meglio di tutti seppe descrivere una Napoli satura di dramma ed umanità.
TEATRO DEI SENTIMENTI. Ed è proprio pensando all'altro celebre stabiese Annibale Ruccello, il quale, nella sua opera "Ferdinando" lascia pronunciare al personaggio di Clotilde la battuta "chi nun tene passate... nun tene manco futuro", che lo spettacolo "Io Raffaele Viviani", oggi come ieri, insiste nel proseguire sulla strada di un teatro fondato sui sentimenti di un popolo capace di soffrire ridendo e di piangere senza lacrime. Tant'è che l'apparentemente comoda riscoperta di uno spettacolo cult, ripropone, invece, i colori di un bozzetto raffigurante un commediografo ed un attore in grado di riprodurre sulle scene la vita vera dei napoletani. Con l'apporto di Gi-gi Savoia che prende agevolmente per mano i tanti personaggi scatu-riti da opere come "O Vico" e "Toledo di notte" e che poi fa sue le struggenti parole di Viviani scritte durante una tournèe alla moglie Maria ed ancora, con Giuseppe Zeno piacevolmente in sintonia con personaggi come il guappo "Filiberto" ed il comico da Varietà "Fifi Rino", la messinscena va avanti senza intoppi.
LA SEDIA "THONET 14". E continua ad andare avanti, nonostante gli artisti, seguendo le indicazioni della regia, oltre a fare i conti con i consueti elementi scenici di una Napoli fatta di vicoli, di lavoro nero ed emigrazione, devono vedersela, anziché con il solito simlacro brechtiano, con una sedia "Thonet 14". Ovvero, con la famosa creazione dell'omonimo designer austro-ungarico dell'epoca vittoriana, diventata per l'occasio-ne (a dire dello stesso Ferrante) simbolo di europeizzazione del teatro di Viviani. Continuando sui sentieri tracciati da un autore che nelle sue espressioni ha sempre raccolto i patimenti della miseria, la sfrontatezza delle donne di strada, il carisma dei guappi e tutte quelle ingiustizie di una Napoli immobile nel tempo, particolare attenzione, a proposito di "Io Raffaele Viviani" va riservata alla parte cantata che conferma una delle peculiarità del teatro europeo del primo Novecento con il suo stretto rapporto musica-parole. E non è un caso se un autore di matrice popolare come Viviani, realizzando una perfetta fusione musica-testo, fornisce ai suoi interpreti tutti i suggerimenti della migliore drammaturgia europea.
MUSICA: UNICA E PREZIOSA. Confermando l'originalità del teatro vivianeo con la musica che assume un'importanza assoluta ed una funzione unica e preziosa, anche in "lo Raffaele Viviani", l'autore emerge deciso consegnando alla protagonista femminile, Lalla Esposito, dei versi e delle note che si avvicinano alla prosa in maniera certamente non sottomessa e puramente ornamentale ma paritaria ed allo steso modo espressiva. Ed è proprio Lalla, meravigliosamente in equilibrio sull'asse Brecht-Weill-Viviani, a caratterizzare, attraverso un conciso profilo, le componenti essenziali di esseri sventurati come "Bammenella" e "Nannina". Con Francesco Viglietti al servizio di un Viviani macchiettistico, lo spettacolo visto al Teatro Totò ribadisce la tesi di un lavoro teatrale inteso come umana espressione di verità. Ed a contribuire nel rendere coinvolgente lo spaccato su di un mondo brulicante di furfanti, miserabili e prostitute, interviene anche Concetta Nappi con i suoi costumi felicemente in linea con i temi del Varietà e con quelli più profondamente legati alla fase espressionista di Brecht. Con il violino di Alessandro Tumolillo e la fisarmonica di Vittorio Cataldi che interagiscono che le musiche registrate e con l'allestimento scenico di Giuseppe Zarbo, il lavoro offre il concetto di un Viviani che trova l'unico bagliore di luce nell'evocazione di una natura tragica, immutabile e non camuffabile e la grandezza di un testo, che ancora una volta, scorre lieve e profetico tra sprazzi di verismo ed armoniosa poesia.